Ho incontrato NINO ROTA in via Sparano


di Alberto Selvaggi


Tutto sembra fuorché un prodigio il trasudare di note rotiane dalle pareti del Conservatorio Piccinni. Nino, che è morto, di notte echeggia vivo, la sua musica riempie la voragine che sottende lo spirito, la musica che come il silenzio è eloquente espressione dell’inesprimibile. Rota ha composto, mangiato, dormito nell’edificio di via Cifarelli: e per questo ha lasciato, abitatore dei sogni, cultore d’ermetismo ed esoterismo, molta della sua quintessenza. Si ascolta il pianoforte andare e venire, melodie del genio che si è fatto Padrino, Napoli milionaria, Amarcord, La dolce vita, Viva la pappa col pomodoro, oratori, brani cameristici, sinfonie, balletti, opere liriche. È il tocco di un tenore di grazia dallo sguardo bambino che ha cambiato il volto di Bari quanto Croce e Piccinni.

Tanti hanno sentito nascere le colonne sonore che ascoltiamo nella saga di Coppola come nelle pellicole di Eduardo, Visconti, Fellini: nella sua dimora a Torre a Mare, nella casa-ufficio in Conservatorio, a Poggiofranco ospite dei Giannelli, nell’appartamento di piazza dell’Odegitria, o a Monopoli dove depose la sua costola adamitica. Tanti amici, devoti, allievi celebrano il milanese concittadino dallo scorso dicembre, centenario della venuta in terra. E, se lo tenete presente nel cuore che è il vostro udito, vi accorgerete che abita ancora qui, come dal ’39, dopo il biennio tarantino, al ’79, anno della dipartita.

Trotterella lieve e intraducibile lungo corso Sonnino. Tiene una borsa di pelle nera contenente soltanto fogli di musica, penna, matite. Franco Ruggiero, suo vice al Conservatorio che guida e nel quale era approdato quand’era Liceo, lo incontra, lo ferma: «Ma, non vieni alla cerimonia alle 10?». Il suo sguardo si cristallizza, proietta una gragnola di note dietro alle spalle dell’interlocutore in affresco: è un germe che svilupperà nel chiasso del Saicaf su un tavolino: «L’avevo dimenticato, mi cambio d’abito e arrivo». Campione del riciclaggio «anche dai miei brani stessi» convive con un persistente flusso creativo. Pranza con l’amata signora Giannelli, «zia Prudenzina», amica custode di sua madre Ernesta. Distende le mani sulla tastiera per diminuite: «Ti piace?» domanda alla donna digiuna di contrappunto e armonia. «Mi commuove, Nino». «Si può far di meglio», oppone il maestro e sodale Michele Marvulli, suo ex studente di composizione e poi direttore, artifex dell’eccellente scuola pianistica pugliese. Rota sorride: «Farò come deciso da zia Prudenzina».

Prove d’ammissione per pianoforte al Piccinni, 1957. Un privatista dalla mascella quadra e i capelli corvini si presenta emozionatissimo alla commissione presieduta da Nino. «Le diamo il massimo in tutte le materie» lo benedice l’omino alato alla fine. L’allievo, uno fra i 300, ringrazia portandosi il nome di Riccardo Muti nella sua Molfetta: «Per me Rota da quel giorno è stato il Maestro, non un maestro», ricorda a denti distesi.

Tutti i grandi si lasciano una voce dietro e continuano a vivere negli eredi. Nicola Scardicchio, discepolo, fa parte del comitato scientifico dell’Archivio Nino Rota, Fondazione Cini in Venezia. Pierluigi Camicia, altro apostolo del Candide. Il docente in pensione Franco Giannelli. I residenti di Torre a Mare, oasi per la quale compose un inno: «O passeggero che vai cercando pace / lungi dal fremito della città…». Gli studenti poveri per i quali inventava borse di studio che finanziava col suo denaro in segreto. E i passanti che lo salutavano mentre sfilava a braccetto per via Sparano con Lina Wertmüller, Eduardo De Filippo, Franco Zeffirelli, Arturo Benedetti Michelangeli, che obbligò a suonare gratis per i suoi studenti al Petruzzelli. Portò a Bari tale Sviatoslav Richter. Per un soffio non offrì l’amato riso patate e cozze anche all’amico Igor Stravinskij, costretto da un malore a mancare il concerto della Fondazione Piccinni. Per cui continuò a cenare alla Panca da Nanuccio, al Sorso Preferito, Gatto Verde, Marc’Aurelio con docenti e allievi. Tanto, per un individuo simile, Leonard Bernstein, Carla Fracci o un trombonista di Bitetto faceva lo stesso.